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3000 notti in una prigione israeliana

15 marzo alle 20,30 a Roma, il film di MAI MASRI 3000 Nights con la presenza della regista al TEATRO PALLADIUM

intervista alla regista di Khelil Bouarrouj da Palestine Square, progetto dell’Institute for Palestinian Studies (16 novembre 2015)

So che i films non possono cambiare la realtà, ma possono ispirare le persone toccando i loro cuori e,  spero, aprendo le menti

La regista palestinese Mai Masri ha presentato il suo acclamato film in vari festival. E’ la sua 11° produzione e il suo primo lungometraggio. E’ il ritratto interiore di una donna palestinese prigioniera in un carcere israeliano negli anni ’80. Protagonista è Layal, una insegnante incinta, arrestata perché sospetta di complicità con un ragazzo che ha attaccato un check point militare. In realtà gli aveva dato un passaggio senza conoscerne le intenzioni.  Il marito la spinge a mentire e a raccontare che il ragazzo le ha teso una trappola e l’ha minacciata. Layal si rifiuta di farlo e verrà condannata a 8 anni di prigione. La prigione femminile ospita  prigioniere politiche palestinesi e prigioniere comuni israeliane: Layal è subito accolta come una sorella nella cella di compagne palestinesi. Nei drammatici 8 anni assistiamo alla nascita   e alla sua crescita del suo bambino; ma la storia ha un respiro più ampio: la resistenza delle donne palestinesi e il loro impegno a restare ferme e determinate, a perseverare, talvolta anche creativamente, di fronte al giogo israeliano. Abbiamo intervistato Mai Masri sulla centralità della esperienza della prigione per i/le palestinesi.

Quasi tutto il film si svolge in una prigione. Si è ispirata al genere “carcerario”?

L’ispirazione principale per il film mi è arrivata da una storia vera, di una giovane madre palestinese che ha dato alla luce il bambino in  una prigione israeliana. Essendo   io stessa divenuta madre di recente, volevo capire che significa partorire da prigioniera in catene e crescere un bambino dietro le sbarre. Ho cominciato ad intervistare altre  palestinesi prigioniere e in particolare quelle che hanno partorito in prigione  e sono rimasta affascinata dalle loro storie e dalle scelte che hanno fatto.

 

Ho anche cominciato a fare una ricerca sui temi del carcere nella letteratura e nel cinema. Uno dei film che mi ha ispirato è stato Fame, che racconta la storia di Bobby Sands, che fu alla testa di uno sciopero della fame nel 1981 di prigionieri repubblicani irlandesi. Ho trovato molti pochi film su donne in prigione, e  nessuno su prigioniere palestinesi. E’ in questo quadro che ho deciso di realizzare 3000 notti. Certo ci sono alcuni elementi del genere carcerario, ma è soprattutto la storia specifica di una maternità dietro le sbarre e della prigione in cui è girato. L’ho girato in una prigione reale, con lo stile cinema verità, per lo più con la telecamera in mano, disegnando i miei personaggi dietro le sbarre. Volevo dargli il taglio di un documentario, in sintonia con la realtà che rappresentava e dargli un aspetto visivo ed estetico caratteristico. Soprattutto volevo esplorare il mondo interiore dei miei personaggi e il modo in cui usavano immaginazione e creatività per oltrepassare le sbarre della prigione.

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Il film presenta uno spazio condiviso, sebbene disuguale, da donne palestinesi e le loro controparti israeliane. Le donne palestinesi provengono dal centro della loro società, mentre le israeliane sono della periferia della politica e cultura dominante degli askhenazi di Israele. Sono ebree Mizrahi e Sefardite, che patiscono una  forma di marginalizzazione nella società israeliana. Assistiamo alla loro animosità, ma  vediamo anche una donna israeliana aiutare le palestinesi. Che speranza c’è di solidarietà tra queste due comunità? 

Ho costruito 3000 notti attorno ad alcuni personaggi ed eventi reali che si sono svolti negli anni 80 in una prigione femminile. Una delle ragioni che mi hanno portato a questa particolare prigione è che ospitava prigioniere palestinesi e israeliane, ma anche donne di altre nazionalità (arabe e occidentali), imprigionate per azioni di solidarietà con la resistenza palestinese. E questo l’ho trovato un mondo affascinante da esplorare. Le prigioniere politiche palestinesi erano di diverse età e diversa estrazione, alcune di loro perfino studentesse di 15 anni.

Le donne israeliane accusate di reati penali erano prevalentemente di origine Mizrahi,  soffrivano la discriminazione all’interno della loro stessa società. Nei primi anni della loro prigionia le donne palestinesi erano costrette a lottare per qualsiasi cosa, compreso il diritto di avere penne, libri e carta. Si organizzavano tra loro e utilizzavano il tempo per istruirsi e discutere di politica. Si davano corsi di inglese ed ebraico  l’una con l’altra, creavano classi di alfabetizzazione per donne anziane e lezioni di matematica e fisica per le ragazze delle scuole superiori. Si erano date il nome di “Libera Repubblica delle donne”.

L’amministrazione carceraria (prevalentemente Ashkenazi) metteva  palestinesi e israeliane le une contro le altre e cercava  di tenerle segregate, in uno stato costante di ostilità.  C’erano spesso scontri tra le due parti, ma anche rari momenti di comunicazione umana che tagliava fuori il conflitto e l’animosità.  Questo si è particolarmente verificato negli anni 80 dopo l’invasione del Libano e i massacri di Sabra e Shatila, che scioccarono l’opinione pubblica mondiale, compresi alcuni settori della società israeliana. Le donne palestinesi proclamarono un grande sciopero per chiedere migliori condizioni ed essere riconosciute come prigioniere politiche. E’ interessante notare che riuscirono a influenzare prigioniere israeliane che passavano loro di nascosto lettere e giornali. Ho trovato questo piccolo episodio intrigante e importante, allusivo a livello simbolico. Sfortunatamente, quanto accade oggi mette in luce una realtà ben diversa. Senza una grande trasformazione politica della mentalità israeliana e un riconoscimento dei diritti Palestinesi, è molto difficile immaginare una significativa solidarietà tra le due comunità.

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La solidarietà con i prigionieri è una delle cause che unisce quasi tutti i palestinesi dal momento che  ognuno ha o ha avuto un parente in prigione. Che cosa può dirci sul ruolo dei prigionieri nella società palestinese in relazione all’attivismo e alla immaginazione collettiva? Vede il suo film come parte di questo discorso?

L’esperienza della prigione tocca una corda profonda della psiche palestinese proprio perché si tratta di una esperienza collettiva diffusa. E’ una metafora potente della condizione del popolo e delle donne palestinesi in particolare. Dal 1967 sono stati in prigione circa 800.000 palestinesi, uomini, donne, bambini, – è circa il 20% della popolazione palestinese nei territori occupati. Centinaia di bambini – alcuni di 12 anni – sono stati arrestati dall’inizio della attuale rivolta popolare, molti altri feriti o uccisi.

Diversi componenti il mio cast e staff hanno avuto l’esperienza della prigione o direttamente  o attraverso un familiare. Durante la preparazione del film ho chiesto di usare le loro esperienze e incontrare alcune delle ex prigioniere. Per molti è stata un’ esperienza dolorosa e catartica.  Una delle attrici,  interprete del ruolo di una capobanda molto dura, è crollata durante le prove perché le ha riportato alla mente ricordi dolorosi dell’ infanzia trascorsa andando a trovare suo fratello nella prigione di Ramleh.

3000 Notti  parla di resilienza e resistenza. E’ il mio modo di dare voce a queste donne e situare la loro attuale esperienza di prigionia e confinamento nel quadro universale della lotta contro l’ingiustizia.

Quante madri hanno sofferto  una condizione simile a quella che descrive? Quanti bambini sono nati in prigione?

L’esperienza carceraria è sentita profondamente dai palestinesi, non solo a livello fisico ma anche psicologico. Segregazione, limitazioni, muri, fanno parte della loro vita quotidiana. Un esempio eclatante è Gaza, considerata la più grande prigione all’aperto del mondo.

Dagli anni 70 molte madri palestinesi hanno dato alla luce i loro bambini ammanettate e incatenate nei letti della prigione. Ho incontrato alcuni di questi bambini: Falasteen, Tha’era, Nour…. La loro nascita  testimonia con forza la speranza.

Sebbene girato negli anni 80, il film riflette una realtà attuale. Non volevo mostrare solo la sofferenza e il dolore, ma anche il senso di comunità, resilienza, creatività delle prigioniere Palestinesi, che dà loro forza e capacità di perseverare e mantenere la speranza.

Come è stato accolto il suo film e quale pubblico spera di raggiungere?

La prima mondiale di  3000 Notti è stata al Toronto international Film Festival ed è stato proiettato in diversi grandi festival di cinema  compresi Busan, London, Talinn, Stockholm, Goa and Dubai. E’ stato accolto molto bene dalla stampa e dal pubblico, e  ad oggi ha vinto due premi internazionali: l’ Audience Award in Valladolid in Spagna e il Jury Award al Women’s Film & Television Showcase (TheWIFTS) in Los Angeles. Dovrebbe circolare a livello internazionale all’inizio del 2016.

Spero di raggiungere un pubblico mondiale. So che i films non possono cambiare la realtà ma possono ispirare le persone toccando i loro cuori e, spero, aprendo le menti. Per me la cosa più importante è dire la verità ed essere fedele a quelle donne le cui storie hanno dato origine a questo film.

 

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